Certe Vecchie Signore: dal Tempo perduto al Tempo ritrovato

Nelle ultime pagine de “Il tempo ritrovato”, ultimo libro della Ricerca, il protagonista, alter ego proustiano incontra se stesso dopo un lungo viaggio. Per la prima volta tempo, spazio, percezioni, emozioni, mente e corpo coincidono, collassando nel presente. In una riflessione rapida ed incisiva avverte finalmente che l’immagine di se stesso come giovane e avvenente con la quale si sta proponendo ad una giovane donna non coincide con il vecchio uomo che è diventato e che tutti gli altri vedono. Capisce che quell’immagine è sostenuta dall’interno dalla voce di sua madre, per la quale lui era rimasto un bambino, che avrebbe parlato degli effetti dell’invecchiare sottolineando “quanto era cresciuto”. Capisce che sta pensando a se stesso e parlando di sè come sua madre. Comprende allora all’improvviso che tra tutte le realtà dell’esistenza la vecchiaia è quella a cui più a lungo  guardiamo come ad un concetto puramente astratto.

Questo passaggio, l’incontrarsi nello specchio, il riconoscersi o meno, la necessità di coincidere con se stesse  è difficile da affrontare per tante donne. Soprattutto per quelle sole, ma non solo. Patiscono lo sfiorire, fanno propri sguardi superficiali  che inciampando nelle rughe si ritraggono velocemente. Si sentono diventare invisibili e putroppo per la cultura dominante spesso lo sono.  A volte sono loro stesse che si guardano attraverso gli occhi dell’Altro, quello sguardo con cui sono cresciute, che le ha da sempre valutate, apprezzate o disprezzate, che è diventato interno. Parlo dello sguardo di una madre che le ha potute vedere e riconoscere, oppure che non ha saputo sostenerle nella creazione di una identità di persone e donne. Dello sguardo del padre, dei fratelli, del compagno o dei compagni, che hanno amato loro veramente, oppure le hanno valutate inseguendo un ideale, un eterno femminino  a cui hanno cercato di assomigliare.

Siamo tutte bisognose di relazioni che ci riconoscano, di sguardi che possano  osservarci come persone complesse, complete e tutte conosciamo la ferita di sguardi superficiali, legati ad una estetica estranea e vuota che di noi non sa nulla.

Quando il riconoscimento non c’è stato, la crisi di passaggio dall’età fertile a quella che fertile non è più, può essere molto più difficile, ma la crisi e il momento dello scoramento, svilimento arriva quasi sempre e per tutte: sto pensando anche a donne che han potuto godere di relazioni originarie sufficientemente buone o che hanno lavorato profondamente, con tenacia, fatica ed allegria, coraggio e unicità alla realizzazione di sè, al differenziarsi da identificazioni, stereotipi, archetipi per incontrarsi, per non tradirsi, sacre a se stesse.

Come per altri temi, l’approfondimento che si può fare su questo è infinitamente sfaccettato; scelgo per questo post piccole  ma importanti tracce su cui  mi interrogo spesso tra me e me, con le pazienti, con amiche e sorelle. Come si costruisce la possibilità di coincidere con se stesse nel tempo? come accade che il viso che incontriamo nello specchio non appartenga alla giovane donna che vive all’interno di quell’unico corpo che possediamo?  Cosa ci estrania dalla realtà dell’invecchiamento e ci impedisce di amarci e riconoscerci così come siamo?

Il tempo che dobbiamo ripercorre per ritrovarci  è stato, come per Proust, un tempo perduto? perduto in una infanzia protratta alla ricerca di paradisi perduti, trattenuto da una relazione madre/bambino che dentro e fuori fa del Piccolo Re Infante un oggetto attraverso il quale non invecchiare mai? Certo, questo capita anche nel mondo femminile: ci sono donne che rimangono figlie per sempre. La relazione madre/figlia è però ben diversa da quella che si crea tra la madre e il figlio maschio. Banalmente il figlio maschio nasce già diverso dalla propria madre.

Tra madri e figlie la mancanza della differenza di genere rende complessa la differenziazione, l’uscita dal momento in cui il corpo è  un corpo per due.  Spesso e dolorosamente le donne vivono corpi che sono ancora un corpo per due (J.McDougall, Teatri del corpo, Cortina Editore, 1990) , sottratto all’esperienza, alla pienezza della vita, alla consapevolezza.
Mi faccio alcune domande:    possiamo pensare non solo ad un tempo perduto, ma anche ad un tempo rubato? il tempo rubato genera identificazioni particolarmente difficili da riconoscere ed affrontare? Come possiamo interrogare il modello materno?

L’idea del tempo rubato mi riporta a relazioni primarie in cui c’è un movimento di appropriazione nella storia della bambina da parte della madre, secondo una logica narcisistica “in base alla quale tutto ciò che merita di essere amato sono io benchè venga da te/ ciò che riconosco proveniente da te, il figlio, lo odio; per di più caricherò su di te tutto ciò che non accetto in me” (Haydèe Faimberg, in Trasmissione della vita psichica tra generazioni, cap. secondo, Borla, 2005); in questo caso l’identificazione con la madre è difficile da riconoscere o gestire perchè la sua causa è nella storia dell’Altra. Quanto questo riguarda anche il corpo, l’aspetto, la gestione della sessualità, l’invecchiare? La figlia senza storia vive nel passato dell’altra, non può invecchiare perchè è senza storia propria, perchè non ha potuto vivere? per questo non si riconosce?

Poi penso anche all’assenza di modello e/o alla presenza di un modello negativo di invecchiamento e maturità. Il futuribile volto che vedo davanti a me, la storia dell’altra, ormai vecchia, della Madre, le sue scelte, il suo stato di salute, la sua capacità o incapacità di amare il proprio uscire dall’età fertile è un modello che mi sostiene? posso dialogare con questo modello o nella crisi di passaggio dell’età “cerniera” sono ancora o nuovamente identificata in modo profondo, inconscio e negativo?

Credo che cosa possiamo fare in arte terapia per favorire un processo di disidentificazione e riappropriazione di sè sarà argomento della prossima settimana, o della successiva (non so se riuscirò a scrivere nei giorni di Natale),  ma
ho voglia di salutarvi con le fotografie di due donne: due scrittrici diverse tra loro per epoca, stili, genere letterario, tematiche ma che avvicino dentro di me per qualcosa che le caratterizza entrambe: anche così, di lontano, il loro bellissimo anziano volto coincide con la loro mente, l’anima, il loro creare, mostra con forza un carattere che corrisponde straordinariamente a cosa scrivono e a come lo scrivono.

Wislawa Szymborska

 Marguerite Yourcenar

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Art therapist, artist,
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4 risposte a Certe Vecchie Signore: dal Tempo perduto al Tempo ritrovato

  1. semifonte ha detto:

    Sfiorire, s-fiorire.
    Faccio lo spiritoso: come diceva quello che non mi ricordo chi era, ai tempi del “riflusso reazionario”: “mi devo essere perso il flusso progressista”.
    Pensa a quanti non saprebbero indicare il momento in cui sarebbero stati “in fiore”. Io per esempio, no. Sono stato fisicamente meglio ma parlare di cervello “in fiore”, mah.
    D’altra parte essere “in fiore” come direbbe Proust è una condizione di massima passività: il massimo di disponibilità a farsi impollinare. E a produrre frutti. Ma è passività.
    Ma siamo poi così sicuri che il parallelismo debba essere portato fino in fondo? Almeno su questo mi sento meno incerto: i miei frutti migliori (i meno peggio) arrivano oggi che ho digerito le varie impollinature e che provo a fare da me.

  2. marilde ha detto:

    Ti seguo da un po’ ma non ho mai commentato. Questo articolo e le foto che hai messo sono, di questi tempi, una boccata d’ossigeno. Grazie!

  3. Fabiana ha detto:

    Ti trovo per caso, non ti conosco ma condivido una formazione di arte terapia, e le complesse vicissitudini interiori sul “fare arte” ogni volta che si muovono le mani. Leggerò con calma il tuo blog, perchè mi sembra come quando ad un primo incontro di gruppo ci chiesero di avvicinare la nostra immagine a quella che le assomigliava, la richiamava, la ricordava. Ci sono colori qui, di cui anche io ho sporche le mani. Grazie.

  4. Pingback: Rileggendo “Certe vecchie signore”… | cecilia macagno

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