Certo: parte III! Son partita da Baba Jaga e, ad un certo punto ci tornerò.
Stamane sedendomi al computer mi son scoperta a ripensare al post precedente, al tempo perduto e tempo rubato.
In entrambe i casi perduto o rubato che sia stato il tempo, mi rendo conto che sto pensando che non si può coincidere con il volto che vediamo nello specchio quando la vita non è stata vissuta, quando il tempo si è incagliato in qualche non luogo impercorribile: può essere accaduto a causa di un evento traumatico, tempo arenato in un eterno presente; a causa di traumi affettivi; oppure quando la storia che alcune donne tentano in continuazione di riparare, di risolvere, a cui cercano di dare un senso non è la loro ma quella della madre se non quella della nonna. Dalla loro sono alienate.
Questo ultimo caso è quello che avevo associato al lavoro di Faimberg che cito nel post precedente, quello sul télescopage generazionale: eventi traumatici, segreti, vissuti inconfessabili, lutti impossibili a compiersi producono una trasmissione muta, inconscia, di materiali incriptati da una generazione all’altra. Materiali non inscritti, in stasi, fuori topica. Materiali non rimossi perchè non rimuovibili, trasmessi attraverso il conosciuto non pensato.
Faimberg, ma anche Kaes e prima ancora N.Abraham e M.Torok hanno lavorato sulla trasmissione inconscia tra generazioni, sull’incriptamento e il fantasma (cripta e fantasma vanno differenziati: la prima designa la sepoltura segreta di un vissuto personale, il secondo riguarda un altro di cui il soggetto porta il segreto a sua insaputa).
Quando è così a volte le donne di cui sto parlando non hanno mai potuto guardarsi e riconoscersi in uno specchio: ho conosciuto bambine terrorizzate all’idea che guardandosi non avrebbero visto nulla (il Nulla) o avrebbero visto qualcosa di spaventoso. Incontrarle mi ha fatto pensare alla profondità del danno, al momento in cui avviene. Cosa, dove, chi e come guarda e vede la madre dell’infante che non si riconoscerà? a quale epoca è rivolto? a quale evento? come si traduce questi guardare altrove o vedere altro nella cura che offre alla sua bambina? Sì, sto parlando di una madre affettivamente assente, se ne parla tanto, ma credo di cercare di formulare qualche pensiero che, almeno per me, è nuovo.
Che parliamo di trauma personale o transgenerazionale, di segreti inconfessabili, di irrisolto narcisistico personale o transgenerazionale, torno a pensare che sia la vita non vissuta che non consente di coincidere con il proprio presente, il proprio tempo, il proprio aspetto. La psiche abita luoghi fermi ad età, o in epoche diverse. Quel volto che guardo non è mio, è troppo vecchio, io sto ancora aspettando di vivere, di risolvere un pezzo di adolescenza! O non è mio perchè appartiene insieme al mio corpo alla storia di un’altra. Oppure se è mio mi precipita verso una vecchiaia senza modello o con un modello talmente disturbante da farmi ritrarre, spaventata.
Come aiuta l’arte terapia?
Penso a tutta la riattivazione sensoriale, alla facilitazione di un contatto che è insieme corporeo ed emotivo, penso all’essere viste e al poter guardare. Guardare insieme al terapeuta che vede e ci vede, ci aiuta a riconoscere e ad iniziare un processo di differenziazione e integrazione grazie alle associazioni. Ma anche solo guardare: impariamo a guardare e a vedere anzichè ad attendere lo sguardo dell’altro. Impariamo a guardarci.
Penso anche a trovare, creare modelli diversi: intanto e sempre, si spera, nella relazione paziente/terapeuta e poi anche giocando con le immagini e le letture, andando in cerca di certe vecchie affascinanti signore. Una ricerca di immagini, di fotografie di vecchi visi che dicono qualcosa.
Penso al Body Tracing e alla ridefinizione dei confini, al poter rinegoziare le pulsioni sotto auspici più favorevoli (rimando per questo a Arte Terapia di Mimma Della Cagnoletta , pag. 180/182).
Penso al poter ritrovare attraverso le consistenze, i gesti, le forme le immagini i luoghi altri dove l’anima sta ancora abitando: un autoritratto, un autoscatto preso camminando, in movimento, work in progress in un luogo e una situazione particolare.
Ogni lavoro è sempre anche un autoritratto: ci sono autoritratti attraverso gli oggetti (pensate a De Chirico o ad Ernst), altri colmi di emotività, altri ancora in cui lo sfondo è più significativo del primo piano (sto pensando a certi lavori di Gauguin). In arte terapia può capitare che il volto non ci sia, ma sappiamo bene cosa possono raccontare, sfondi, texture, oggetti, intensità del colore. Si possono rintracciare nei flussi di ogetti artistici elementi costitutivi di una persona, apprezzarne i cambiamenti, vederla crescere e fare in modo che si veda.
Le immagini di oggi sono opere di pittrici; autoritratti. Come questo di Alice Neel
l’affascinante The Blue Room di Susan Valadon che aveva fatto a lungo la modella prima di dipingere…
o la galleria di autoritratti di Paula Modersohn Becker:
ne ho scelti due, ne potete trovare molti, a diverse età, testimoni di quante Paule fosse capace di riconoscere e accogliere.
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