Certo, se frequentate il blog, non vi è nuovo che io segua il filo dell’assenza di parola, dell’ineffabile, nella dimensione estetica, così come quello della presenza della dimensione estetica nel linguaggio. Temi su cui scrivo e riscrivo (brevi appunti qui nel blog, e un articolo in http://www.psychomedia.it/pm/arther/art-ther/macagno.pdf)
Tentando di trasmettere ciò che diventava essenziale nell’incontro con La Madonna del Parto, ho utilizzato però la parola Silenzio.
Quando, nell’incontrare un’opera d’arte visiva, vivo uno stato di profondo impatto estetico, il Silenzio è una della qualità sempre presenti, porta per ritrovare una più profonda consonanza e concordanza tra psiche e corpo.
L’ineffabile mi riporta alla radice dell’ordine del semiotico, al momento in cui il corpo, in realtà lo psiche soma con tutta la sua ricchezza e complessità preverbale, presimbolica e preriflessiva, è seme di parola. Davanti ad un’opera d’arte nata da una reale esperienza estetica, vale a dire non estetizzante, posso rivivere un ritmo felice tra stati di integrazione e non integrazione, presenza e assenza, assenza anche e appunto di di parola, perché l’esperienza estetica me lo consente, svolgendo importanti funzioni di contenimento, restituzione e accoglimento di significato.
Come la madre ha saputo accogliere, riconoscere e transitare in sé le proto emozioni e proto sensazioni del bambino, le ha sognate e le ha restituite attraverso una dimensione accettabile, fatta di ritmi, pressioni, sussurri,
come la madre ha potuto avvicinare l’infinitezza universale della realtà emotiva del bambino, portarla nel suo corpo e restituirla contenendola, dandole forma e trasmettendola in modo esteticamente adeguato, finito, umano e avvicinabile
così l’artista attraverso la sua personalissima revêrie transita una verità universale e la rende accessibile attraverso l’opera d’arte che ci contatta, contiene e parla con modalità estetiche.
altrimenti forse non avrei potuto nemmeno immaginare quell’incontro numinoso?altrimenti sarei nuda e mortale di fronte all’ inavvicinabile? O ancora, anziché provare Timor Sacro, stupore e meraviglia, ne sarei annientata?
Ma, torno a dire: ho usato la parola Silenzio. L’uso segnala che, mentre una parte di me si consente di vivere il momento un’altra testimonia tutto: posso incontrare e abitare il Silenzio solo perché so che la parola esiste.
L’incontro con l’opera mi consente momenti di felice oscillazione tra integrazione e non integrazione, lasciandomi anche separata e senziente: è quel sapere il Silenzio che lo testimonia. E non importa che l’opera sia figurativa o astratta, o materica o informale.
Se penso al Silenzio, alla verticalità, all’infinitezza che diventa presenza del Mistero, alla luce che si sprigiona dalla tessitura dell’opera e ci parla – tutti elementi presenti nella Madonna del Parto- subito rivivo anche gli incontri con l’opera di M. Rothko.
In quel momento che l’ineffabile presenza sia anche assenza non mi turba, perché è contemporaneamente modello di simbolizzazione, di pensiero possibile e di possibili parole.
Talvolta mi è difficile uscire dalla compenetrazione estetica. Mi richiede un lungo tempo di transizione. Non vorrei, proprio non vorrei. Se costretta dal reale a uscirne in fretta, devo badarmi, aver cura di me come fossi un bambino che ancora non ha un preciso senso del tempo e dello spazio.
Ma qualcosa sempre mi sostiene:
Quando consento ad uscire dal Silenzio significante in se stesso anche perché saputo nel momento stesso in cui nulla so, ad uscire dalla meraviglia e incontro l’assenza quella vera, quella che rischia di essere colmata dal fantasma di un vuoto nullificante, di essere confusa con esso…
penso ad una nothingness che è il luogo autopoietico che si crea quando accetto che là dove c’è stato qualcosa non c’è più e alla paura che sia invece rimasta una non cosa terrificante.
quando accetto che possano emergere solo poche stentate parole, perché di più non posso e che solo quelle e non altre sono pertinenti…
ogni volta diverse, perché ogni volta apro all’esperienza e sono così senza memoria e senza desiderio
…mi avvicino un poco di più a me stessa, le parole stentate dichiarando da una parte la mia appartenenza…
la mia parola nasce da quell’incontro, da quello che è stato per un poco corpo per due, dall’ esperienza estetica che faccio di me con l’altro e dell’altro che mi contiene mentre la vivo
…dall’altra, la mia distanza e solitudine nella pochezza, lontana dall’essere tutt’uno con la bellezza, ma anche il mio essere soggetto, presente a me stessa, nutrita dall’esperienza. Nel pensiero del Bion di Trasformazioni (1965), mi sembra di poter capire che diventare se stessi comporti l’attraversamento del travaglio trasformativo reso possibile dall’accettazione della dipendenza, dell’assoggettamento.
Sto tentando di dar voce a qualcosa che ha a che vedere con quella pausa, con l’accettazione del vuoto che dà vita a un atto poetico e autofondativo, che dichiara e accetta i vincoli del mio esserci mentre trovo parole per raccontare. Ciò che si avvicina di più, per ora, è che le stentate parole con cui racconto l’assoggettamento sono un atto autofondativo.
Passato il ponte stretto della transizione posso trovare, nella mia finitezza, la libertà di un sé trasformato