Rieccomi. Sono andata a rileggere (cliccando sul link lo potete fare anche voi se ne avete voglia) la prima parte e mi sono resa conto che sto annusando e tastando nuovamente il conosciuto non pensato. Questa volta come traccia da cui origina il perturbante: familiare e insieme spaesante perché senza nome, senza pensiero, puro rimembrare di un corpo che risponde a percezioni, sensazioni, emozioni mai pensate. Un perturbante, quindi, legato a qualcosa cui la parola non può immediatamente legarsi e e si fa vertigine di tentativo. A una coscienza che non è consapevolezza. Che è pieno senso di sé, ma nell’incontrarla si palesa come vuoto. Un vuoto pieno e significante che è, comunque e sempre, connesso alla capacità della madre delle origini di contenerlo e significarlo senza bisogno di pensarlo e che diviene Patria perduta nel momento in cui la madre passa a significare attraverso parole umane. Perduta nel momento in cui la ricchezza del condividere è contemporaneamente cesura rispetto all’assolutezza dell’essere. Nel momento in cui il contatto quasi totale con il corpo materno finisce, determinando la cacciata dall’Eden e l’inizio della Nostalgia desiderante.
Lo so, lo so finisco sempre qui. Ma, del resto, quando si praticano l’arte e la poesia, quando in terapia si aspetta che parole nuove prendano corpo, come si fa a non finirci?
Credo di stare tentando di pensare a come questo momento sia diverso per l’uomo e per la donna, a come diviene per l’uomo perturbante, confuso con il desiderio per il corpo dell’Altra ( donna, madre, sorella, figlia), corpo percepito ricolmo di ogni bene ed insieme come tagliato, concavo, vuoto, abisso e spettro, mentre può evolvere in modo diverso per la donna.
Questo mi stavo chiedendo, più o meno un mese fa: loro, dunque, le donne, che quel corpo – pensato dall’umano/ maschile come perturbante- lo sono, come lo vivono?
Vi avevo segnalato La perturbante, a cura di Uta Treder in cui chi scrive rintraccia la possibilità di un rapporto molto più confidenziale delle donne con il familliare spaesante.
Che cos’è questa confidenza, quanto costa a chi la vive? Anche le donne nascono da corpo di donna, conoscono la fatica di emergere da una relazione in cui il senso di sé nel suo farsi è legato al corpo dell’altra. Conoscono la paura di tornare a quello, l’abisso di un desiderio che trascina nell’indefinito. La conoscono forse di più: uguali corpo a corpo, come tornare alla fonte di ogni cosa senza perdersi? L’uomo può fantasticarsi come origine in sé, la donna nel suo incarnare la ciclicità conosce l’abisso del seme e il suo essere, anche, sempre stata. Uguale, nel corpo, all’altra che l’ha generata prima di sapere il suo proprio. E paga la ricerca dell’identità personale molto cara.
Le parole che dividono, difendono, differenziano, le parole della scienza, della filosofia, della psicanalisi e della letteratura sono parole umane. Sono molto letterale in questo momento: intendo sono parole dell’uomo, degli uomini, sono gli uomini che per secoli hanno avuto la possibilità di dare parola alla scienza, alla filosofia, alla medicina. Parole che hanno improntato la cultura e attraversato la storia. E sono le parole attraverso le quali parla e si esprime l’Io.
Le parole e le regole dell’Io, quelle senza le quali l’Io si perde sono parole maschili. Parole pensate e nate per condividere, sì, ma anche per allontanarrsi dal rischio dell’ incontro con una condizione che viene intesa come vuota e amputata
scrivo condizione perché intendo al tempo stesso corpo fisico e capacità di pensare
come pure per regolamentare il rapporto con il sesso che quel vuoto e quel taglio, al tempo stesso spaventosi e assolutamente desiderabili e invidiabili nella loro accoglienza e generatività incarna. Un corpo che appunto fa senso.
Ma le stesse regole/parole che salvano e definiscono l’Io, che fanno in modo che non si perda, che lo riparano dall’angoscia, allontanano la donna dalla possibilità di raggiungersi. Sono anche quelle parole e regole che rendono difficile alla donna ritrovare una via per una identità di Sé che rimanga legata alla profondità del femminile, alla Fonte, Pianta e Porta senza perdersi e senza diventare perturbanti a se stesse, senza supinamente accettare di essere il perturbante.
Lontane e affrancate dal modo e mondo maschile possono ritrovare la possibilità di essere Assolute e Sconclusionate …
nel senso più strettamente etimologico di queste parole: senza legami, né confini rigidi
….perché aperte a ogni Possibile, al senso del fluire presente, che fermato si svuota.
Possono ritornare a capacitarsi, cioè a essere Capienti con modalità che il pensiero pensato secondo le regole umane non ha. Possono trovare parole e generare pensieri che avvicinano all’Essere e allo Spirito, più di quelle della filosofia e delle scienze. Possono ricongiungersi al vuoto e scoprire che è passaggio. Se si lasciano arrivare fino a lì, ecco credo possano affrontare il senso e il pensare in un modo così profondo e particolare da giustificare lo spaesamento che le ha fatte dichiarare perturbanti da chi non può. A cosa penso? alle mistiche, alle streghe, a molto altro, anche. Ma, su questo, vi invito a seguirmi nella terza puntata.
grazie per le parole Assoluta e Sconclusionata!