Al Museo Marini di Firenze ci sono in contemporanea due piccole mostre. Se siete arte terapeuti e vivete a Firenze o ci siete di passaggio, non perdetele.
Prima di tutto perchè il Marini merita una visita. Poco conociuto, pochissimo promosso è un bel luogo, antica chiesa restaurata e ripensata come spazio espositivo luminoso, affascinante con chiare strutture a vista di grande respiro. Si gustano spazi, altezze e materiali: un bel dialogo tra pieno e vuoto, altrettanto bello quello tra i materiali, cemento e legno. Da quest’anno poi è possibile vedere la Cappella Rucellai e l’incantevole Tempietto del Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti: una meraviglia cinquecentesca che a me ha destato impressioni, sensazioni, emozioni e pensieri densi. Dalla gratitudine per tanta bellezza allo stupore, da una strana curiosità che mi incatena al dettaglio, al potermi perdere nella visione d’insieme. Ma bisogna vedere per comprendere come un tempietto di così piccole dimensioni, sembri contenere secoli di storia e un pungente senso del sacro.
All’interno merita la permanente dedicata a Marini che regala qualcosa soprattutto con la possibilità di osservare il percorso artistico, le differenze dei periodi… Io non amo tutto. Mi piacciono soprattutto le solitarie sculture di uomini e donne a grandezza naturale e i ritratti, piccola galleria di teste in gesso trattato variamente.
E ai ritratti mi aggancio per passare alle due mostre allestite nella zona dedicata alle esposizioni temporanee:Melotti guarda Melotti e Braccia
Devo dire: i manifesti con il solo titolo Melotti guarda Melotti mi avevano fatto immaginare una antologica. Io AMO Melotti. Invece in una piccola stanza della cripta c’era un’unica installazione, quella che vedete nell’immagine, ma assolutamente meravigliosa: in un continuo rimando di sguardi e ombre Melotti, ritratto da Marini (gesso e cera) e una sua opera matura si guardavano. Spostandosi nella stanza si potevano assumere i diversi punti di vista dell’uno e dell’altra, delle ombre proiettate che creavano dialoghi sottili a livelli diversi e con diverse modalità. Amplificazione, focalizzazione, rispecchiamento… come trovarsi dentro al dialogo con l’oggetto artistico che accompagna e contiene i nostri pazienti e noi, intimo e serrato. Chi guarda chi e chi racconta cosa? E ancora quale opera risponde all’altra? quale autore?
L’altra mostra ha titolo Braccia. Alessandro Biggio, cagliaritano, interloquisce con altri artisti chiedendo loro di pensare, progettare opere inedite che raccontino la Sardegna e di cui lui si fa esecutore, si fa braccia appunto, come in questa nata dal dialogo con Diego Perrone
riporto un passaggio della presentazione della mostra: la condizione della distanza, insieme al principio della delega, viene a costituirsi come uno degli elementi chiave di Braccia. Oltre all’emergere di specifiche dinamiche legate ai processi creativi dell’opera d’arte, Braccia cerca di rompere l’associazione semantica tra i concetti di insularità e isolamento, promuovendone un’idea alternativa, andando a definire questa reale e apparente incolmabile distanza come luogo della relazione.
Ecco, credo che non ci sia bisogno di commentare molto. Come non pensare all’opera co-creata nel campo estetico intersoggettivo in seduta? come non pensare al luogo tra come allo spazio potenziale?E all’uscita dall’insularità come al prezioso lavoro che attraverso l’arte terapia si viene a compiere per creare la capacità di relazione?