Nell’Autunno ho avuto il privilegio
il piacere, il gusto, la scoperta: tutto ciò che avviene lavorando insieme su qualcosa che si desidera condividere ed esplorare
di lavorare a Milano con due piccoli ( piccoli come numero, ma assolutamente non come presenza) gruppi di Arte Terapeute iscritte al Master A.T.I. di Formazione Avanzata .
introduco un’ update per chi non ne sapesse nulla: Il master di formazione avanzata è un prodotto che Art Therapy Italiana ha concepito nel 2013, già partito nella sede di Milano, ma di prossima apertura anche nelle altre sedi (Bologna, Roma, Firenze…); è rivolto a Arte Terapeuti diplomati in altre scuole, come pure a psicoterapeuti e altri professionisti con esperienza o curiosità nel campo, che vogliano completare e arricchire le loro competenze sostenuti dalla specifica metodologia A.T.I. in arte terapia ad orientamento psicodinamico. Chi è arte terapeuta approfondisce e ha un master di eccellenza, chi non è arteterapeuta non lo diventa attraverso il Master, ma matura strumenti eccellenti e un nuovo sguardo su di sè come persona e terapeuta.
Il seminario volgeva sulla psicoestetica, termine che è per me evocativo di un modo/mondo infinitamente sottile e sfaccettato di vivere ciò che si muove e ci muove nel creare, nel prenderci cura dell’Altro; come pure di qualcosa che è essere e divenire nel quotidiano e che si fa più presente quando riusciamo a sentire la vita che si muove in noi dal percepire al sentire, immaginare, pensare. Quando riusciamo ad avvertire livelli diversi che si arricchiscono e dialogano nell’apprendere dall’esperienza.
Preparando il primo di questi incontri
e poi il secondo, ma già sostenuta dall‘esperienza precedente
mi sono trovata a esplorare e a dover trovare un’organizzazione per un complesso insieme di riferimenti: come interfacciare diversi modelli di pensiero, come far sentire che sono tutti sguardi sullo straordinario incontro che avviene con l’altro in arte terapia? Come dare risalto all’ estetica come comun denominatore? E, ancora più difficile: come trasmettere attraverso ciò che è mio in modo specifico, appreso negli anni di lavoro e di continua ricerca e crescita? Perchè è quest’ultimo filo che tiene insieme tutti gli altri!
E anche, mi chiedevo: ma non sarà solo qualcosa di così assolutamente determinato in me da non essere valido per altri? Già è difficile veicolare la possibile trasmissione di un’esperienza, quale che sia…
mi spiego meglio. So di avere un’attitudine dotazionale che è andata sviluppandosi nella vita, nell’incontro con l’ambiente a sentire nel corpo, a tollerare e riuscire a stare. Poteva essere un ingombrante bagaglio, ho scelto di provare a farne uno strumento attraverso la formazione. farlo diventare strumento può significare stare nel crinale tra corporeo e dolore mentale, senza doverlo significare fino a che e affinchè un significato prenda forma nel complesso tragitto che lo compie e no, non è una possibilità permanente, né automatizzabile. Grazie al cielo quando è troppo è troppo e intervengono le difese. Per tutti. Lo scrivo a futura memoria per evitare il rischio di un’idealizzazione di questa posizione. Ma so che questa caratteristica è in me un poco estrema e può risultare poco comprensibile e accettabile per chi ha dotazioni diverse e ha sviluppato nella vita un altra modalità, diversamente e altrettanto valida che ben conosco e riconosco e che è per me fonte costante di arricchimento.
Ho finito per pensare che, se mi limitavo a essere ciò che sono, senza lasciarmi saturare dalle mie stesse fantasie su cosa/ come un docente dovrebbe essere, potevo appoggiarmi a una base teorica bene interiorizzata, in cui muovermi per richiami e collegamenti associativi senza perdere incisività e che poteva essere arricchita da un linguaggio evocativo, il più possibile vicino a ciò che da una parte era necessario trasmettere, dall’altra chiedeva di essere trasmesso. Un linguaggio vicino alla mentalità estetica, quello che Bion ha definito il linguaggio dell’effettività (2),
…discorso complesso per un significante che lo è ancora di più. Bion (Attenzione e interpretazion, Armando Editore, 1973, capitolo 13) deriva il termine Linguaggio dell’Effettività da una lettera di John Keats nella quale parla dell’uomo dell’effettività (man of achievment) e della capacità negativa. Consiglio la lettura, ma comunque sto parlando del fatto che normalmente tendiamo a utilizzare un linguaggio che è un sostituto della realtà effettiva (la Realtà Ultima, O) e lo facciamo ancora di più se cerchiamo di contenere il campo psichico (che non è contenibile) all’interno di definizioni già costituite. Questo linguaggio a cui siamo abituati è rappresentazionale (se va bene, altrimenti è pura difesa intellettiva), non presentazionale di qualcosa che sta avvenendo. Può diventare Linguaggio dell’Effetività quando riusciamo a stare nel dubbio, nell’incertezza , in capacità negativa appunto, e siamo in realtà contenuti dal campo psichico e non ci pretendiamo contenitori per il campo. Il linguaggio dell’effettività non è definito, si sforza di trovarsi ed è fatto anche di azioni, allorchè l’azione sembra essere richiesta (Bion, 1970), non è cioè solo un agito da interpretare, come normalmente viene inteso nella psicoanalisi classica, ma un movimento in cerca di forma che deve essere protetto dalle incursioni dell’analista (Bion, 1970). La poesia è una delle forma vicine al linguaggio dell’effettività e l’arte e il movimento lo sono. E l’azione artistica in arte terapia come azione che è possibile, nel momento in cui sembra esserlo, lo è…
Un linguaggio vicino alla mentalità estetica dunque, accompagnato e sostenuto da esperienze che si muovevano dalla percezione di sè e del momento alla scelta di materiali, alla trasformazione di oggetti artistici in movimento, suono, poesia secondo le possibilità che per ciascuno si creavano sul momento.
questa la modalità pensata; essendo fallibile, come tutti gli umani, spero di aver trasmesso almeno una piccola parte di quella che era una luminosa apparizione
Ho deciso anche di far precedere la parte del seminario che definiamo esperienziale, da un rilassamento che aiutasse le partecipanti a entrare o rientrare in contatto con quello che per me è luogo, Spazio interno, l’Intima Stanza di San Giovanni della Croce e Emily Dickinson, quella che per me è il luogo dove possiamo incontrare La Madre delle Origini, come l’ho chiamata inalcuni dei miei scritti, la Forma del senza forma, come tendo forse a chiamarla ora.
Nella poesia 45 la Dickinson scrive C’è qualcosa di più muto del sonno/ in quest’intima stanza…Per lei come per Giovanni della Croce parlo di stanze reali e in profonda unione con quella interiore nel momento in cui corpo e mente che danzano, parlano e sognano insieme danno vita a quell’attenzione sospesa ed estetica che andiamo cercando nel lavorare. Sto dicendo anche che per noi la stanza più muta del sonno, perchè transita l’ineffabile, è quella che si crea dall’unione tra quella interiore e quella in cui lavoriamo. Che la stanza in cui possiamo lavorare sempre, anche quando l’ambiente non ci sostiene è quella interiore sempre con noi, in noi e che ci contiene mentre la conteniamo se accettiamo di non coincidere mai completamente con essa perchè ci trascende, perchè è lo spazio del Sè, in continuo divenire, mai afferrabile e ineffabile.
Ma perchè e da dove la prima parte del titolo: Forma del senza forma? Dal Tao, ma questo va nella parte seconda.
E intanto, infinite grazie ai gruppi con cui ho lavorato!
_________________________________________________________________________
mi ritrovo dentro un movimento in cerca di forma… lì sul confine, col fiato trattenuto… e ogni volta, la forma che trova non è quella definitiva, dopotutto…!
grazie
Sì, così. Per me, il punto è che non può esserla… mi troverei ferma. Sto molto perlustrando questa terra.
Grazie Cecilia, porto con me il ricordo ancora fragrante del tempo passato e degli stimoli che ci hai offerto…alla prossima!
Ciao Paola e grazie! cge bello ritrovarti! Cecilia
Pingback: La Forma del senza Forma e lo Spazio creativo. Parte Terza | cecilia macagno