Perchè fare una Scuola di Formazione per arte terapeuti e se sì, perchè il Programma di Art Therapy Italiana?
Quando ero bambina, ancora piuttosto piccola, osservavo i libri d’arte che trovavo in casa. Non erano molti. Di autori disparati.
E disegnavo. Disegnavo moltissimo. Ero una bambina solitaria e silenziosa. I libri d’arte, affascinanti anche se a volte difficili per me, erano amici presenti a trasformare lo stato di solitudine.
Entravo nelle immagini, mi perdevo e ritrovavo come Alice attraverso lo specchio. Ho continuato a nutrirmi, a lasciarmi abbracciare e toccare dalle immagini, a prenderle dentro di me. A disegnare, dipingere, anche al liceo Classico, anche a Lettere Antiche.
Adulta, illustratrice per seconda formazione ( l’arte tradita, mi aveva richiamata con energia e mi ero diplomata allo IED), mi sono avvicinata al mondo del disagio sociale e contemporanemente ho iniziato una analisi. La mia identità terapeutica aveva iniziato a fare capolino. Chiedeva di essere vista, riconosciuta, definita.
La mia analista puntava a una formazione junghiana: psicologia, CIPA. Il mondo delle immagini era un aspetto basilare nella formazione junghiana, mi diceva. Io volevo utilizzare l’Arte, ciò che mi aveva nutrita e curata dall’inizio. Mi aiutò a cercare. Mi segnalò diverse possibilità.
Iniziai a fare workshop e stage. Acquisivo strumenti, ma mi sentivo mooolto lontana dalla meta. Di cosa avevano veramente bisogno i gruppi di bambini e adolescenti a rischio con cui mi trovavo a lavorare?
Così mi iscrissi ad un primo corso di formazione in Arte Terapia ad orientamento junghiano. Andava decisamente meglio. Nel mio ruolo di tirocinante, mi presentavo con i progetti e la valigia di Mary Poppins, colma di colori, entravo in relazione con persone di età diverse, etnie diverse, gravate da patologie e disagi sociali e sentivo che la meta si stava avvicinando.
Poi andai a lavorare in una comunità assistenziale di riabilitazione per pazienti psichiatrici.
N. se ne andava in giro con in testa una pila di cappelli, infilati uno sull’altro per tenere a posto i pensieri. Quando i cappelli erano tanti era perchè vedeva gli shambers verdi che calavano sul suo campo visivo come neve aliena.
P. era sulla sessantina ed era stato in manicomio per tre quarti dell’esistenza. Piccolo, intabarrato in un pastrano grigio, pantaloni un po’ corti, con una coppola appiattita, anche quella un po’ scarsa di misura, schivo. Occhi sospettosi e spaventati dietro lenti spessissime. Mi ricordava uno degli ebrei dei quadri di Chagall: volano ma lo sai ugualmente che sono stati internati e forse non sono sopravvissuti.
F. era una giovane donna, graziosa. aveva sempre un fiocco in testa, a tenerle i capelli, come quello di Biancaneve. Oltre ad avere una patologia psichiatrica grave, era cieca.
D. era sottile, biondo. Presentava sintomi negativi. Non parlava e non poteva accettare che i suoi vestiti si consumassero e venissero cambiati. Si sentiva perso senza quelle seconde pelli che avevano preso la sua forma e lo circondavano con affetto. Suonava la chitarra meravigliosamente.
A.,affetto da una grave forma di schizofrenia, aveva tentato il suicidio gettandosi da una finestra ed era paraplegico.
Il gruppo era molto più folto di così; mi innamorai di ciascuno di loro e del lavoro
Ma: dopo un anno di work shop e tre di formazione, non trovavo risposta a molte cose. Non ero un’artista pura, che avrebbe altrimenti utilizzato l’arte in modo istintivo a beneficio di quelli, tra gli utenti, che avevano già in sè la spinta a produrre un oggetto artistico, a lavorare seguendo i bisogni. Però non avevo nemmeno chiaro come utilizzare la mia sensibilità estetica e l’empatia corporea per tenere il gruppo e i singoli in modo valido. Non sapevo come comportarmi con pazienti così gravi. Compresi che mancava qualcosa: innanzitutto l’impostazione della scuola che stavo per terminare era fortemente votata a sostenere persone in grado di simbolizzare. Poi parte della formazione era costituita da studi astratti, lezioni frontali che non trovavano riscontro nel reale, o, per lo meno, in come io lo percepivo. Sentivo che la mia sensibilità estetica e la mia capacità di entrare in empatia mi suggerivano azioni possibili che però non trovavano riscontro nella formazione. E se state pensando a una ricerca di risposte da manuale, no, non ero in cerca di modelli prestabiliti. Cercavo qualcosa che desse forma all’esperienza personale, che mi aiutasse a nominare ciò che sentivo, ma non in modo astratto, legato a un sapere saputo solo con la mente. Mi sentivo abbastanza certa della validità di ciò che sentivo, ma come trovare risposte?
Ho la caratteristica di non mollare mai la presa, finchè non trovo la risposta. Cerca, cerca, l’incontro illuminante fu quello con Maria Belfiore al propedeutico di Art Therapy Italiana.
Come ho già scritto in uno degli articoli lunghi, Il sasso in bocca, era un seminario di gran qualità, durante il quale potei fare un’esperienza fondante del mio Sé terapeutico. Un intreccio sontuoso, elegante e profondo di esperienze compiute attraverso i materiali e l’oggetto creato, dall’informe alla forma, dalla relazione con la propria immagine alla relazione con quella dell’altro, fino ad arrivare a sperimentare una dimensione estetica di gruppo, aveva trovato modo di essere elaborato e condiviso attraverso parole adeguate. Quelle della teoria, ma vere e appropriate per quella certa esperienza. La formazione ha mantenuto le promesse per tutti gli anni, in tutti i seminari e oltre. Trovo spesso vuota e insoddisfacente, poco attraente la conoscenza su o intorno a qualcosa: conoscere è un’altra cosa. Apprendo dall’esperienza, o anche dalle parole se sono vive, sorgive. Altrimenti riconosco e sistemo in cassetti, ma c’è una bella differenza.
Il programma di Art therapy Italiana offre una formazione teorico esperienziale, precisa e paziente. Le tracce dei modelli evolutivi proposti e quelle delle patologie si incontrano sempre attraverso esperienze dirette di laboratori esperienziali finalizzati al riconoscimento personale di spunti che vengono poi collegati con la teoria e la pratica professionale. L’orientamento psicodinamico sostiene una crescita in cui il processo creativo, quello evolutivo e quello terapeutico si intrecciano e sostengono vicendevolmente. Non ci si trova di fronte all’ arte come terapia e nemmeno a una terapia verbale che si avvale dei disegni per interpretarli.
Il processo creativo è inteso come base sana per la vita, un presupposto biologico ed evolutivo e si inserisce in una visione dinamica e relazionale tra noi e il mondo che ci circonda. (Mimma Della Cagnoletta, 2010). In questo approccio la sensibilità estetica del terapeuta è considerata uno strumento fondamentale dell’Arte Terapia e grande parte della formazione è dedicato ad affinarla, capire come utilizzarla e incanalarla; è una danza relazionale legata all’empatia estetica quella che si crea tra paziente e terapeuta, quella che si coltiva, struttura e sostiene nella formazione.
Facile? No! Economico? Purtroppo nemmeno! Ma, credetemi, ne vale assolutamente la pena!
Grazie per avere condiviso questa esperienza , in modo così aperto e con parole così toccanti e comprensibili. Anch’io voglio fare una esperienza del mio Se’ terapeutico e vivaddio voglio che sia un intreccio sontuoso ed elegante. Come sai, io credo che quando tu vuoi veramente un guru, quando sei pronta per un guru, allora lo incontri. Le molecole dell’Universo si organizzano e tu lo incontri . Non è bellissimo ? Un abbraccio xxxxx
grazie Maria! un abbraccio. Cecilia