Immagini, malgrado tutto

Articolo per me difficile. Scritto, riscritto. Non è ancora ciò che sento dovrebbe essere, perché so solo in parte ciò che mi attraversa. Ho pensato che per facilitarmi e facilitare metterò dei titoli a paragrafi che si legano ancora in modo faticoso.

Le vittime di Parigi: immagini, emozioni, vicinanza, (giusta?) distanza

Sabato e ieri e oggi su Facebook piovevano le fotografie delle vittime degli attentati di Parigi. Primi piani, volti giovani, volti sorridenti. Giovani adulti di razze diverse, non solo parigini, non solo europei.
Nel momento in cui ho saputo, ascoltando il giornale radio sabato mattina, ho provato orrore, rabbia. Il pensiero era andato, veloce, su una guerra in atto. Vicina, ma una guerra. Quella che tutti sappiamo esserci, quella che è costantemente segnalata da tempo, da tempo in atto noi nonostante.
Vedere i volti delle vittime ha cambiato qualcosa. Attraverso i nomi e soprattutto attraverso le immagini le vittime diventavano persone. Il cambiamento dentro di me, però non era solo quello. Quei visi, erano quelli dei mie figli: le stesse speranze, le stesse promesse. Il medesimo sguardo diretto e vivido.
Il rimbombare del sangue spinto veloce dalla paura. Lo stomaco che si chiude.
Subito dopo o al tempo stesso, tanto tutto è andato velocemente di pari passo, la comprensione ha assunto altri connotati: siamo in guerra, ho pensato. Ecco, la guerra ci riguarda tutti.

Le immagini avevano aperto la porta dell’emozione. Ma non mi piacevo, non ero soddisfatta di come mi sentivo, di quello che sentivo. Non lo ero perché solo attraverso quelle immagini ero stata raggiunta per davvero, e solo attraverso la somiglianza che mi aveva per un attimo fatto coincidere. Solo perché assomigliavano ai miei figli. A me. A noi. E perché quei volti erano ancora vivi, non disumanizzati dalla distruzione.

Ero, dunque, grata al potere delle immagini da una parte, turbata da un’altra.

Ho faticato per ridare alle vittime quello che spettava loro: l’unicità di ogni presenza viva, persa per sempre. No, non erano i miei figli, ma singoli, insostituibili esseri umani, cittadini del mondo. Un mondo, questo sì, il loro, il nostro infinitamente più povero ora che non esistevano più. C’era dolore per tutto ciò che era accaduto. Non erano i miei figli, ma la guerra quella rimaneva vicina, vera. Mia. Nostra. Non loro. C’era una dolente vicinanza che mi consentiva di non confondermi e insieme di non allontanarmi.
Sembra banale, vero? Sembra banale perché con la mente lo sappiamo già che la guerra ci riguarda, che tutte le guerre ci riguardano.

Avevo dovuto fare un lavoro per comprendere, questo lavoro riguarda la distanza.

Quante sono le guerre, quanti i visi e le immagini che mi lasciano lontana? Quante volte in questo mondo globale che ci inonda di immagini ho potuto voltare la testa, chiudere gli occhi perché Tutto era in qualche modo lontano? Sono solo un passo più vicina a ciò che sto cercando di pensare.

Immagini malgrado tutto

La scorsa settimana leggevo Immagini malgrado tutto (Georges Didi-Huberman, Cortina, 2005).

Didi-Huberman offre una lettura di giusta distanza a quattro fotogrammi scattati nel campo di sterminio di Birkenau. Sono unici. Scattati clandestinamente da un membro di un Sonderkommando con l’aiuto di un operatore esterno votato, a costo della vita, alla comunicazione di quanto stava accadendo. Lo strappo di rullino trasportato fuori da Birkenau ripiegato in un tubetto di dentifricio. Non esistono altre immagini come questa. I nazisti distrussero tutti gli archivi fotografici; ciò che noi conosciamo dei campi di concentramento e sterminio è solo una documentazione posteriore alla liberazione.
Nonostante la documentazione posteriore, nonostante quei quattro fotogrammi esiste il negazionismo.
Oppure esiste un sentimento di totale, assoluta distruzione che ci annichilisce.
Didi-Huberman propone e ripropone i quattro fotogrammi, ci aiuta ad osservarli, a leggere l’immagine, calibrandone per noi la distanza, perché quell’unico documento di vita e volontà di vita e comunicazione dall’interno della morte ci raggiunga. Perché la realtà di quelle esistenze destinate a sterminare i propri simili, prima di essere a propria volta sterminate, potesse finalmente avere immagine, sfuggendo così all’archiviazione non solo dei nazisti ma anche nostra. Loro, le vittime volevano che si conoscesse quella verità dall’interno del campo e sapendola indicibile e incredibile si erano affidate all’immagine.
Loro sapevano che il racconto non sarebbe stato sufficiente.
Una parte del mondo psicanalitico e della critica letteraria sferrò un attacco contro il primo scritto dell’autore destinato ad accompagnare una mostra sui campi di sterminio in cui i fotogrammi comparivano per la prima volta.
Queste, in sintesi, le critiche rivolte a Didi- Huberman:
niente mai, nessuna cosa mai potrà essere detta che si avvicini alla Shoah e nessuna immagine mai potrà rappresentarla; proporre immagini, le uniche immagini interne al campo, era un’opera di riduzione dall’indicibile. Era un’offesa alla memoria della distruzione totale.
Peccato che proprio quelle vittime avessero tentato l’intentabile perché noi le potessimo vedere.  Peccato che quelle immagini, le uniche scattate dall’interno della morte abbiano come valore quello di avvicinarci alle vittime, di obbligarci a osservare una quotidianità lavorativa altrimenti inimmaginabile. Peccato che se è indicibile e irrappresentabile allora non ne posso avere consapevolezza né memoria.Come avrete capito, sono d’accordo assolutamente d’accordo con Didi-Huberman.
La lezione di Didi-Huberman passa attraverso le Immagini: come possiamo guardare? Come dobbiamo guardare? Allora, come oggi le immagini di distruzione, di sterminio, agiscono su di noi costringendoci ad avvicinare l’impensabile e l’indicibile. Danno Immagine all’impensabile e all’indicibile.
L’assolutezza della distruzione ci cattura, ci lasciamo raggiungere là dove personalmente c’è una faglia di assoluto catastrofico. Coincidiamo. Poi, nell’impossibilità di stare in questo manifestarsi assoluto, ci distacchiamo. Completamente. Le terribili immagini dei morti nei campi di concentramento e sterminio fanno questo effetto. I sopravvissuti, in tutto simili ai morti fanno questo effetto. Il nodo cruciale è, lo sappiamo la disumanizzazione.
Solo i nomi, solo quella quotidianità in immagine ci raggiunge per davvero. Lì non possiamo fare finta: siamo anche noi, proprio noi.

La giusta distanza

Ma non basta lasciarsi raggiungere. La lezione di Didi-Huberman passa attraverso la differenza che sta tra l’osservare confondendosi, distaccandosi e distanziandosi.

Chiunque sia arte terapeuta e mi sta leggendo conosce bene questa distinzione e sa anche quanto sia difficile, soprattutto nel momento in cui le cose accadono

Se io osservo confondendomi, se mi identifico con la vittima porto via, rubo l’ultima identità possibile a chi ha già tutto perduto, anche il nome.
Se io osservo distaccandomi, entro in quella lontananza del cuore che mi rende uguale a chi colpisce. Il fatto non esiste. Sono scivolata nella banalità del male.
Se io osservo distanziandomi, ma continuando ad abitare all’interno del cuore, ecco, allora forse posso dirmi umano, perché tengo intera una realtà, prima divisa. La tengo intera sopportando il dolore che mi genera. La tengo intera rimanendo ferma e presente. Senza anestesia, ma nemmeno ricorrendo all’identificazione che nega la reale presenza dell’Altro.
Ecco. I volti sorridenti che arrivano uno dopo l’altro sui nostri schermi, posso provare a osservarli così.

Nome di Dio: Birkenau

In questi giorni, volto dopo volto, ho pensato e ripensato ai  Trentatrè Nomi di Dio. il poetico e profondo elenco che M. Yourcenar ha composto e su cui ho scritto qualche tempo fa.

Vi rinnovo qualche passaggio

1. Mare al mattino
2. Rumore dalla
sorgente nelle
rocce sulle pareti di
pietra
3. Vento di mare
a notte
su un’isola
4. Ape

 

In questi giorni ho pensato e ripensato ai Nomi e allo scambio tra me e Elena R., alla possibilità di trovare, creare a nostra volta un elenco di nomi di Dio.
In Siamo lo spazio tra il pesce e la luna , finivo per scrivere:
Non sono sicura di avere espresso bene quello che sento, perchè è cosa difficile da tradurre e rifiuta il pensiero. Accetta, direi, solamente la poesia. Provando nuovamente riesco a  dire che per me il nome di Dio è l’incontro della Realtà con il cuore, senza che la mente ci inganni. Un solo, semplice, attimo di pura presenza.

Ecco, ma se il nome di Dio è l’incontro della realtà con il cuore senza che la mente venga meno o ci inganni, se è l’incontro attraverso l’ordine del cuore, allora…Se posso guardare immagini terribili e comprendere, se senza quelle immagini terribili non capisco…

Nella mente era comparso un Nome possibile, un Nome Terribile e lo sentivo improponibile. Lo sento ancora un poco come tale. Mi fa paura: la paura di essere fraintesa e quella, se fraintesa, di dare scandalo. Di dare scandalo nel senso più intimo e profondo di sconvolgere, cor-rompere uno stato di innocenza. Eppure per me, lo scandalo è altro. Sta da un’altra parte.
Scandalo è quando non sappiamo, pur potendo sapere. Scandalosa è la necessità che abbiamo di foto di vittime che ci assomiglino per capire.
Scandalo è quando ci identifichiamo con le vittime dipingendo la loro storia con le nostre piccole storie personali. Abusando dell’immagine che ci arriva.
Scandalo è anche la facilità con cui ci sentiamo lontani dalle vittime, se non eventualmente per dimenticarle velocemente. Sono neri, gialli, andini, sono lontani e non ci assomigliano o poco. Sono lontani. Possiamo scacciare la mosca, possiamo applicare la lontananza del cuore.
Scandalo è la lontananza che mettiamo in atto per sentirci innocenti di ciò che accade, mentre siamo complici attraverso il nostro non voler sapere.
Scandalo è quanto, nell’eccesso e nel difetto di distanza, ci rende complici dell’oppressore.

Incontrare nel cuore vuole dire incontrare tutto, sorretti da qualcosa o qualcuno che mi piace o mi è facile chiamare Dio; incontrare senza nascondermi. E allora, se quando si comunica realmente è di Dio che si parla, se ci sono incontri epifanici con la realtà indicibile, anche Birkenau è un Nome di Dio…

Nome di Dio: Birkenau
Nome di Dio: Laogai
Nome di Dio: Ogni sterminio dimenticato

…attraverso il quale l’umano e il disumano compaiono accoppiati, stretti per mano e noi dobbiamo scegliere da che parte stare senza illuderci di averlo già fatto.

 

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Siamo lo spazio tra il pesce e la luna. II

chagall

Se Tu esisti, rendimi azzurro, focoso, lunare, nascondimi nell’altare con la Torah, fa qualcosa, Dio, in nome di noi, di me. M. Chagall. La mia vita – autobiografia

Nei tempi  che dedico al mio diletto e nutrimento, abito ancora questo spazio. Non mi sono spostata. Mi sono chiesta se farvene partecipi nuovamente o rimanere nascosta anche per paura di annoiare…

E poi mi è sembrata sciocca la paura, e falso un depistaggio che proponesse altro dal luogo dove per ora risiedo.

Lo avrete capito, non intendo praticare l’immane fatica di scrivere per riempire la pagina del giorno. scrivo da dove sono. Se il luogo che abito è particolarmente segreto, ha necessità di segretezza e gestazione, non scrivo. Se il luogo che abito è frettolosamente lavorativamente indaffarato, non scrivo. In entrambi i casi, non scrivo fino a che non matura qualcosa che possa esser scritto.

Per questo ecco una immagine di Chagall che di spazi tra il pesce e la luna ce ne ha regalati molti e  pochi versi di Rumi.

Quando i nomi non esistevano

Nel giorno in cui i nomi non esistevano
nè segno alcuno di cosa nominabile, Io ero.
Le cose e i loro nomi provennero da me, ma quel giorno era prima dell’io e del noi.
Un ricciolo dei capelli d’amore venne messo come segno
eppure quel ricciolo non era (…)
Le briglie della mia ricerca mi condusero alla Kaaba ma l’amore non era la meta di giovani e vecchi.
Interrogai Ibn Sinna nella sua estasi,
ma l’amore non apparteneva al suo dominio.
Ero alla “distanza di due archi”,
ma niente vidi in quella corte eccelsa.
Rivolsi l’attenzione al mio cuore
e quello era il luogo, non altri.
Salvo Shamsi Tabriz, quel puro spirito,
nessuno era ebbro, sconvolto e innamorato.

Note:

La Kaʿba (in arabo كعبة), talvolta approssimativamente scritta Kaaba, ossia scatola, è una costruzione che si trova nella Masjid al-Haram, al centro della Mecca, Arabia Saudita, e costituisce il luogo più sacro dell’Islam.

Ibn Sinā, alias Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā o Pur-Sina più noto in occidente come Avicenna (persiano: ابن سينا‎‎; Balkh, 980Hamadan, giugno 1037), è stato un medico, filosofo, matematico e fisico persiano.

Essere alla distanza di due archi, se ho capito in modo appena sufficiente, corrisponde al più alto grado di vicinanza, all’unione con Dio

Shamsi Tabriz, mistico, fu il maestro spirituale di Rumi ( un poco riduttivo, ma esatto).

 

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Siamo lo spazio tra il pesce e la luna (Rumi)

Buongiorno a tutti! Sì, ci sono ancora, un poco distolta dalla nascita de La Casa di Baba Jaga, ma ci sono ancora.

Pubblico per intero un commento di Elena, al post I trentatrè nomi di Dio ( Marguerite Yourcenar).

Elena scrive: Grazie Cecilia! Mi sono accorta di conoscere quasi tutti questi nomi (i cammelli no, non sono nella mia esperienza) perché nel leggere ciascuno mi nasce un sì immediato di riconoscimento (in particolare il numero 11 sì si assolutamente lo riconosco). Se non fosse troppo ardito, mi cimenterei in una lista personale dei nomi di Dio, mettendo sicuramente anche il tuo “fiati di nuvole” e un abbraccio, che ti mando ora.

Che bello sarebbe avere i Nomi di Dio che Elena incontra nella sua esperienza e anche I Nomi di Dio di tutti quelli così umili da potervisi abbandonare, ciascuno scrivendo a proprio modo. Ci proviamo?

Nell’attesa ringrazio Elena per questo commento e  anche per il messaggio che mi ha lasciato su Facebook:

Elena scrive: a proposito dei trentatré nomi di Dio… interessante tesi: quando si comunica realmente, è di Dio che si parla! (se ho capito giusto…)

questa la mia risposta:
Cecilia scrive: Chissà! Tengo con me il sentimento di epifanie, incontri epifanici con la Realtà a cui si cerca di dare nome. E che questo non possa essere altro che Quello di Dio. Presente nella creazione. Dio come incontro tra Creazione e Creatura.

Non sono sicura di avere espresso bene quello che sento, perchè è cosa difficile da tradurre e rifiuta il pensiero. Accetta, direi, solamente la poesia. Provando nuovamente riesco a  dire che per me il nome di Dio è l’incontro della Realtà con il cuore, senza che la mente ci inganni. Un solo, semplice, attimo di pura presenza.

Mentre pensavo a tutto questo sono comparsi dei versi di  Rumi, (il mistico persiano che ha vissuto nel XIII secolo; ho messo il link di Wikipedia per chi non lo conosce e vuole almeno saperne qualcosa)

Sono diventato un flauto di canna con il tuo respiro

Siamo oceano
notturno,
immersi in scintille
di Luce.
Siamo lo spazio
tra il pesce e la luna,
mentre stiamo qui,
seduti  insieme.

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Dopo Wallace Stevens, un merlo per Seamus Heaney

Dopo Tredici modi di guardare un merlo di Wallace Stevens, eccone uno di Seamus Heaney, San Kevin e il merlo,  forse una delle mie poesie preferite.  La corredo di link sulla vita del santo e di fotografie della città monastica di  Glendalough, dove si era ritirato a vivere.

il sito monastico di Glendalough

San Kevin e il merlo

E poi c’era San Kevin e il merlo.
Il Santo è in ginocchio dentro la sua cella
a braccia tese ma la cella è stretta.

Così deve sporgere il palmo irrigidito
come una trave maestra fuori dalla finestra
affinché il merlo vi si posi
per deporre e preparare il nido.

Kevin avverte nel cavo della mano le uova tiepide,…
il pettuccio, la testina dal piumaggio ravviato,
i piccoli artigli e, scoprendosi legato
alla rete della vita eterna,

è mosso a pietà: dovrà continuare a tenere la mano tesa
come un ramo fuori nella pioggia e nel sole per settimane
finché la nidiata non uscirà dal guscio per prendere il volo.

*

E siccome l’intera cosa è stata comunque immaginata,
immagina tu d’essere Kevin. Come ti appare?
Dimentico di se stesso o in agonia perenne

dalla nuca fino agli avambracci doloranti?
Ha le dita indolenzite? Avverte ancora le ginocchia?
Oppure, il nulla ottenebrato dell’oltretomba

s’è aperto un varco dentro di lui? Vaga lontano con la mente?
Solo e riflesso limpidamente nel profondo fiume dell’amore,
“Lavorare e non cercare ricompensa,” questa è la sua preghiera.

Una preghiera recita il suo corpo interamente
poiché ha dimenticato se stesso, dimenticato il merlo
e solo, sulla sponda, ha scordato il nome del fiume.

(da ‘The spirit level’, Mondadori, 2000 – Traduzione di Roberto Mussapi)

ST Kevin cell

ST Kevin bed

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I trentatrè nomi di Dio (Marguerite Yourcenar)

Tra gli autori che vorrei non avere mai letto, per poterli incontrare ora, c’è Marguerite Yourcenar.  Ricordo l’ingresso del suo scrivere  in me, come un fatto dell’anima e della mente.  Rileggere? sì, rileggo. Ogni volta un’emozione antica e nuova.

Qui sotto trovate qualcosa di piccolo ( la meraviglia per le cose piccole e la gratitudine…) che prende per mano chiunque scriva con passi  d’uccello, fiati di nuvole, esitando sulla soglia tra visibile e invisibile per poi lasciarsi scivolare.  

I trentatré nomi di Dio (Marguerite Yourcenar)


1. Mare al mattino
2. Rumore dalla
sorgente nelle
rocce sulle pareti di
pietra
3. Vento di mare
a notte
su un’isola
4. Ape
5. Volo triangolare
dei cigni
6. Agnello appena nato
bell’arietepecora.
7. Il tenero muso
della vacca
il muso selvaggio
del toro
8. Il muso
paziente
del bue
9. La fiamma rossa
nel focolare.
10. Il cammello
zoppo
che attraversò
la grande città
affollata
andando verso la morte.
11. L’erba
L’odore dell’erba.
12. (disegno suo, come tanti asterischi, stelline)
13. La buona terra
La sabbia e
la cenere
14. L’airone che ha
atteso tutta
la notte, intirizzito,
e che trova
di che placare la sua
fame all’aurora
15. Il piccolo pesce
che agonizza nella gola dell’
airone
16. La mano
che entra in
contatto
con le cose
17. La pelle – tutta la superficie del corpo
18. Lo sguardo
e quello che guarda
19. Le nove porte
della
percezione
20. Il torso
umano
21. Il suono di una viola o di un flauto indigeno
22. Un sorso
di una bevanda
fredda
o calda
23. Il pane
24. I fiori
che spuntano
dalla terra
a primavera
25. Sonno in un letto
26. Un cieco che canta
e un bambino invalido
27. Cavallo che
corre
libero
28. La donna
— dei  —
cani
29. I cammelli
che si abbeverano
con i loro piccoli
nel difficile wadi
30. Sole nascente
sopra un lago
ancora mezzo
ghiacciato
31. Il lampo
silenzioso
Il tuono
fragoroso
32. Il silenzio
fra due amici
33. La voce che viene
da est,
entra dall’orecchio
destro
e insegna una canto.
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DSA: IL CONTRIBUTO DELLA DANZAMOVIMENTOTERAPIA

con un grazie e un abbraccio a tutte le colleghe!


PRIMA PARTE
PROGETTO PROMOSSO DA
APID – 2015
VIDEO a cura di Marina Massa e Anna Lagomaggiore – Coordinatrici del Gruppo studio APID (Associazione Professionale Italiana di Danzamovimentoterapia) “Età evolutiva e disturbi dell’Apprendimento”.
La ricerca, focalizzata sui Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA), è nata dall’esigenza di approfondire il contributo che la Danzamovimentoterapia può offrire al disagio crescente che l’infanzia manifesta in questo momento storico-culturale e che si registra, per l’appunto, anche in un aumento dei disturbi nell’area dell’apprendimento. In particolare partendo dal presupposto che la DMT considera l’essere umano come un’unità inscindibile di mente e corpo, si è voluto iniziare ad esplorare come questo legame, che anche le recenti ricerche e scoperte in campo neuro scientifico evidenziano sempre più ( stanno sempre più indagando), possa giocare un ruolo significativo nel mancato sviluppo di determinate attitudini psichiche indispensabili per apprendere.
Poiché “l’apprendimento è un atto complesso” è importante che anche…

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poesie per l’estate

Sarà il caldo, la stanchezza, il lavoro da portare avanti che impegna tutte le risorse… Trovo sollievo quasi solo nelle poesie e nelle immagini. Oggi vi saluto con Tredici maniere di Guardare un merlo, di Wallace Stevens

Tredici maniere di guardare un merlo

I.
Fra venti monti nivei
L’unica cosa mobile
Era l’occhio del merlo.

II.
Ero di tre voleri,
Come un albero
Su cui stanno tre merli.

III.
Girò il merlo sui venti dell’autunno.
Fu breve parte della pantomima.

IV.
Un uomo ed una donna
Sono uno.
L’uomo e la donna e il merlo
Sono uno.

V.
Non so se preferire,
Bellezza di cadenze
O d’allusioni,
Il sibilo del merlo
O quel che segue.

VI.
Riempivano i ghiaccioli il finestrone
Di barbarico vetro,
Dove l’ombra del merlo
Trascorse e ritrascorse.
Scovò lo stato d’animo
Cagione indecifrabile
Nell’ombra.

VII.
O esigui uomini d’Haddam,
Perché vi figurate uccelli d’oro?
Non vedete che il merlo
Cammina intorno ai piedi delle donne
Che vi circondano?

VIII.
Io so nobili accenti
E ritmi luminosi e inevitabili:
Però noto m’è pure
Che il merlo è coinvolto
Nelle cose ch’io so.

IX.
Quando scomparve a volo,
Il merlo segnò il margine
D’uno di vari circoli.

X.
Alla vista dei merli
Volanti in verde luce,
Fin l’orgie d’eufonia
Davano un grido acuto.

XI.
Viaggiò per il Connecticut
In un cocchio di vetro.
Una volta lo strinse lo sgomento,
Quando prese in isbaglio
L’ombra del suo equipaggio
Per un volo di merli.

XII.
II fiume trasalisce:
Deve volare il merlo in questo istante.

XIII.
Fu vespero l’intero pomeriggio.
Nevicava,
Per nevicare ancora.
Ed il merlo s’assise
Fra le membra del cedro.

 

 

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Allacciami. Sono il tuo bottone

Una poesia, ancora, di Chandra Livia Candiani (se cliccate trovate una bella intervista rilasciata nel 2014).  Non credo di poterla commentare in alcun modo.

Ma attenzione!  Chandra Livia Candiani  fa palpitare il cuore, lo collega all’anima e alla mente in modo sconsiderato: è pericolosa!

Allacciami. Sono il tuo bottone.

“Io ti sbircio
come una scacchiera
di battaglia navale
non so ancora dove
mi affonderai
segnerai una fenditura
con la biro nera
degli occhi
e mi porterai in salvo
su una terra consegnata
un tema della luce
senza crepe: tu m’insegni
il filo la tela
la presa l’abbandono
tenere restare stringere
essere vecchi, piccoli piccoli
tacere buttarsi
contatto immaginazione. Io
imparo, io
mi allaccio.”

Allacciami. Sono il tuo bottone.


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passioni, fuochi, acqua e contenitori

Mi sono immersa nella rilettura serale di Psicologia alchemica di Hillman.
(tutto ciò che trovate scritto in corsivo è una citazione dal libro).

Ho ritrovato la sua bellissima mente sempre in gioco tra sopra e sotto, mondo supero e mondo infero, materia e psiche. Ho ritrovato quella terra di mezzo in cui non è dato senso alle parole se sono vuote, se non rimangono impregnate di materia, psiche soma. Simboli vivi. Per come son fatta io, leggere queste pagine ogni volta è tornare a casa, ritrovare la mia pelle.

Rientra in scena l’alchimia. La sua bellezza risiede nel linguaggio materializzato, che non è possibile prendere alla lettera. (…) L’alchimia ci offre un linguaggio di sostanze che non può essere preso sostanzialisticamente, ci offre espressioni concrete che non sono letterali.  Ci impone la metafora. Nell’atto stesso di pronunciare le nostre parole siamo trasportati dalla lingua in un come se, nella materializzazione della psiche e contemporabeamente nella psichizzazione della materia.

Gli alchimisti affrontavano l’opus con dedizione assoluta, con passione devota e disciplinata. Il lavoro dell’opus teso a trasformare la materia era una trasformazione della persona, della psiche della persona. Obbligava al corpo, alla consapevolezza che siamo materia e che senza corpo e senza materia nulla si trasforma.

Questo libro affascinante porta all’interno di un processo fatto di  metalli, sali…di fuochi e stufe, fornelli e contenitori ben differenziati per ogni necessità.

L’acqua si presenta in una infinità di condizioni, dalla goccia di pioggia all’oceano, dalla palude stagnante alla bianca cascata. I recipienti che la contengono hanno un bordo e un fondo. Non si tratta soltanto di capire se sono troppo umido o troppo arido, troppo lacrimoso e flaccido, troppo rinsecchito e fragile, ma di capire che forma ha il mio umore. (…) Tutto ciò che maneggiamo va in qualche modo contenuto. Perfino gli oceani hanno le loro rive.

(…)

Ci sono recipienti di ogni forma e dimensione, fatti con i materiali più vari, dalle canne di fiume e dai virgulti del salice all’argilla spessa per pentole e marmitte, al legno per le doghe delle botti,  al metallo e al vetro per i becher. Alcuni si scaldano in fretta ma tendono a creparsi, altri sono opachi, altri trasparenti, alcuni piatti e aperti per consentire l’evaporazione, altri a chiusura ermetica per intensificare la pressione. I recipienti, metodi di contenimento: reggi bene al calore? sei denso, opaco, lento a scaldarti, sicchè nessuno sa che cosa ti succede dentro? …Sei troppo permeabile, fragile, troppo rigido, solido, straripante, pieno di crepe?

E come lo regoli il fuoco della tua passione? come lo impieghi? lo alimenti a sufficienza perchè non si spenga, lo controlli perchè non divampi bruciando e distruggendo ogni cosa? e lo conosci? è il fuoco di Estia, addomesticatore della cultura, austero controllo della passione? quello di Marte troppo ardente, acre e furioso?

Il fuoco è l’agente , il maestro dell’opera. La conoscenza del maestro deve essere di prima mano; non la si apprende dai libri o dalle conferenze sul desiderio. La brava cuoca ha bruciato più di una pietanza  e più volte si è ustionata le mani.

L’alchimista partecipa con il propio calore, è tutt’uno con il fuoco, è dentro il fuoco. Il vecchio che nel suo laboratorio prepara soluzioni con alambicchi e storte, in ginocchio davanti al fuoco, è il vecchio nella nostra mente che, le mani nella fornace del suo corpo, lavora alla trasformazione della propria natura-i nostri acidi e zolfi, le nostre putrefazioni, i nostri sali amari…

La conoscenza manuale delle intensità si applica anche a altre discipline: la scrittura per esempio: lasci il capitolo sulla scrivania per tre giorni, senza toccarlo e quando lo riprendi in mano scopri che è diventato freddo e rigido come un baccalà…

le plumbes, scarpe di piuma e piombo

La scrittura, la pittura. Anche nell’opus dell’arteterapia abbiamo materia, pigmenti,  contenitori,  laboratori alchemici che ci consentono di fare in modo che l’opera non sia opera vuota, opera di sole parole. Lavoriamo con le mani nella fornace, sentendo umori secchi a cui aggiungere gocce di legante, pesantezze plumbee da trasformare…

già trattata l’alchimia? sì! in Il Senex, il piombo e le polarità  e poi so di avere citato Nathan Schwartz  Salant, altro amato autore jungiano che di relazione e campo estetico parla utilizzando  l’alchimia, ma non riesco più a capire dove. Mannaggia! s epercorrete il link con il suo nome appaiono i libri promossi da Feltrinelli, ma ce ne sono altri tre, fondamentali!, e li trovate sul catalogo di Vivarium.

Buona lettura!

 

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Le Stanze del Sé e l’importanza dello sguardo

I capitani Coraggiosi de Le Stanze del Sé , Michela Caccavale, Serena Rinaldi e Samuela Staccioli nel Convegno sulle Arti Terapie del 2015 ci offrono la possibilità di ripensare l’importanza dello sguardo nelle Arti Terapie.

Quando guardiamo, vediamo? Vediamo veramente? siamo capaci di stare di fronte all’altro con la consapevolezza che il nostro sguardo può essere tinto da giudizio, pregiudizi, emozioni e vissuti del momento…E, come posso dire all’altro ti vedo, senza usare la parola? Come posso essere presente senza nemmeno sentire il bisogno di usarla, la parola?E come vorremmo che lo sguardo dell’altro ci accarezzasse?

Ogni volta che scrivo sullo sguardo, racconto o penso lo sguardo mi si presentano nella mente le parole di John Berger nella pagina finale di My beautiful, che descrivono il suo incontro con un Angelo di Luca Della Robbia al museo del Bargello a Firenze.

L’angelo era bellissimo. Mi riferisco alla sua presenza, non alla sua riuscita come opera d’arte. Ho fatto un disgno per cercare di capire meglio l’espressione del suo volto. E, mentre disegnavo ho capito qualcosa di molto diverso.

Il suo viso vi dà la certezza che vi sta guardando. Qui la bellezza non è quel che vi piace contemplare, ma ciò da cui volete essere guardati! La bellezza è la sperenza di essere riconosciuti dall’esistenza di quello che state guardando e di esservi inclusi.

Ho sempre pensato sia questo lo sguardo che cerchiamo e che possiamo offrire. Lo sguardo di chi riflette l’ esistere nello stupore e nel rispetto della reciproca presenza. Ogni incontro, ogni sguardo sempre come nuovo di fronte alla meraviglia che è l’Altro. Facile? No. Ci perdiamo per strada? Spesso e volentieri! Ma se lo sappiamo, se sappiamo quanto vale tutto questo, se almeno per un attimo siamo capaci di vedere, siamo già a buon punto.

Come scrivono i capitani coraggiosi:

Riteniamo importante, alla luce del progetto realizzato e dei percorsi offerti e di quelli possibili, dedicare un’attenzione particolare al tema dello Sguardo che ogni individuo e quindi la società porta con Sé, riflettendo sulla necessità di sospendere il proprio giudizio e di annullare la distanza che ci separa,  per accogliere con stupore la diversità dell’Altro e scoprirne così la ricchezza (dai contenuti del Convegno sulle Arti Terapie 2015).

Lo sguardo nel convegno viene portato sulle persone diversamente abili: riusciremo a ricambiare, la presenza e la mancanza di giudizio con cui ci guardano? Quel sentirsi nudi e veri e vivi di fronte a loro…Quell’essere oggetto di tanta bellezza…?

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